Annamaria Janin

Caldo-freddo, opaco-trasparente, armonico-contrastato, aperto-chiuso, contiguo-distanziato, mono-polimorfo.
Dualità e opposizione connotano questa “Mostra numero due” di Maria Caboni, artisticamente figlia di due maestri: Rosanna Rossi (che le ha trasmesso un rigoroso metodo di lavoro) e Wassily Kandinsky (che è stato oggetto di uno studio approfondito per la sua tesi di laurea).
“Mostra numero due” a sottolineare che costituisce la seconda tappa di un lungo e minuzioso percorso verso l’astrazione, già in nuce nella serie di acquerelli – tutti sul tema del ranuncolo – esposti sei anni fa e di cui il reperto che ora accoglie i visitatori dà testimonianza.
L’allestimento, volutamente didascalico, propone gli esiti di questo percorso raggruppati in blocchi e sequenze ad evidenziare le diverse fasi di un apprendistato graduale e sistematico, vissuto con estrema diligenza. Qualità davvero rara in tempi in cui imperversano le vocazioni artistiche all’insegna della più disinvolta improvvisazione.
Non ha voluto bruciare le tappe Maria, ed è ripartita da zero iniziando con canoniche strutturazioni compositive e cromatiche: forme semplici, isolate o aggregate, statiche o dinamiche, ottenute con la tempera. La cui resa ha sperimentato su diversi formati: dapprima concentrata e successivamente più o meno diluita e arricchita da interventi con i pastelli secondo una tavolozza molto personale.
Esercizi di stile che rivelano un progredire lento e graduale condotto su iterazioni e su variazioni appena percepibili, ad andamento prevedibile e quindi rassicurante, in una dimensione per certi versi anacronistica rispetto alla temperie che caratterizza le modalità trasgressive dell’arte contemporanea. Ma attraverso cui si è impossessata saldamente di strumenti basilari per l’attività pittorica, secondo ritmi distesi in apparenza inconciliabili con lo stile di vita convulso che va per la maggiore.
Ritmi che la ancorano a valori di sensuale manualità senza dubbio gratificante, assecondati ed enfatizzati nella pratica della pittura su stoffa.
Questa costanza d’amore per la materia nella pienezza delle sue seduzioni richiama alla mente le parole severe di Fausto Melotti, che quelle seduzioni aveva ben conosciuto e felicemente controllato: “La rinuncia alla rappresentazione del mondo naturalistico è meno difficile della rinuncia all’amore della materia in cui si lavora. Eppure è questo un amore inutile e divagante rispetto all’arte”.
Ma al tempo stesso appare in apprezzabile antitesi a quella progressiva smaterializzazione – dell’arte come della vita nel suo complesso – imposta dalle nuove tecnologie, che Paul Virilio ha significativamente chiamato “estetica della sparizione”.
Così, sospesa tra due poli di giudizio estremi e opposti, questa giovane donna controcorrente per temperamento e formazione (come attesta il suo nutritissimo curriculum) induce ad interrogarsi con lo spirito che animava Luciano Anceschi quando, inaugurando la mitica serie della rivista “Il Verri”, scriveva: “Ecco dunque il critico, nella sua condizione più pura, davanti all’opera. Nessun giudizio lo aiuta, nessuna storia esiste ancora. E l’opera richiede, in qualche modo, il riconoscimento di opera d’arte. Che cosa farà il critico?”
A Maria Caboni suggerirà di osare, di procedere con coraggio ad uno strappo sicuramente doloroso ma necessario: liberarsi dal bagaglio di nozioni ed esperienze ormai sedimentate che rischiano di diventare un fardello frenante. Facendo esplodere quella carica emotiva e conflittuale, ora latente, che già traspare dai suoi lavori più riusciti. Senza tradire gli antichi maestri ma conquistando quello spazio che – nel possesso della solida preparazione raggiunta – le permetta di estrinsecare pienamente le sue doti.

Efisio Cadoni
Nelle antiche stanze
Colour – dance di Maria Caboni

Una mostra di pittura, nelle antiche stanze del Palazzo Marini della via Ada Negri, a Cagliari, ha richiamato molti attenti visitatori, alla vernice, alla color – dance dell’astratto, con l’armonioso cromatismo delle carte dipinte da una giovane artista, colorista d’eccezione, Maria Caboni.
Sono passati cinque o sei anni dalla mostra d’esordio, da quella sua prima esposizione di colori-fiori, semplici, stradoppi, petali distesi, corolle aperte come labbra, ranuncoli plurilabiati, sensuali matrici florali. Anche allora, come oggi, il colore era il tema preferito e unico della sua ispirazione. E oggi, sulla parete dell’ingresso, il colore, con la sua forma di allora, testimonia quel passato non lontano come l’origine “concreta” della sua scelta che l’ha condotta a una graduale separazione da quel medesimo oggetto nell’attuale astrazione ritmico contemplativa di un abnorme informale. Anche in queste sue tempere, infatti, in queste sue “carte” che, a volta, si collegano insieme in distinti settori, con lo scopo di segnare i percorsi, gli sviluppi delle scelte di Maria Caboni, l’artista non esprime un rifiuto della “rappresentazione”. In ogni suo spazio, gli abbinamenti, i gruppi, il “quadro” isolato, manifestano l’intento dell’artista di delimitare e le consonanze timbriche e le variazioni tonali e i concatenamenti dei colori e la costanza delle sue “visioni” nella iterazione di fasce sovrapposte, giustapposte, interposte. Le sue carte, le immagini delle sue carte, appaiono ora aeree, piane, acquose, trasparenti, lucide, ora spesse, corporee, ruvide, come teorie di macigni siderali, con increspature, concrezioni, screpolature, nell’ossimoro della varia-ripetitività dell’oggetto-informale, dove sembra che il viola dell’eros o il nero della sub-immaginazione sovrabbondino sulla cruda realtà del giallo, come il peccato di Stuck sull’oro della luce.
La separazione dalla “rappresentazione” originaria non è dunque totale, né violenta. Non vi è in sostanza alcuna negazione della “forma”. L’artista ci propone l’evolversi di una sua forma prescelta, la spiritualizzazione della forma, là dove la conduce la predilezione per Kandinskij, in una forma d’invenzione, mai statica, una forma in tensione, in movimento equilibrato, mosso, ondeggiante, danzante, in un passaggio musicale ordinato e composto, proprio come una danza, memore forse delle molli sollecitazioni di Tersicore, in questa calda serata d’apertura, in questa simpatica color-dance dell’arte.
E queste sue carte sugli antichi muri, che formano una sorta di pittura parietale molteplice, in un cinema di schermi consecutivi, dando anch’esse l’idea del movimento e della danza, nella loro collocazione e disposizione, si sposano felicemente con tutto l’interno, con tutto l’ambiente che sembra trarre e diffondere, dall’ottocentesca magione, una lenta mazurca, un valzer, anche più antiche danze, un saltellante minuetto, i passetti e gli inchini.

Pupo Marras

Dal caos primordiale, dalla frammentazione esposta alla dissoluzione senza storia (forse un Big-Bang del chiuso fiore originario) ecco emergere per necessità vitale, per attrazione amorosa, nuclei di organizzazione superiore che ben presto (ma chissà con quale fatica) si fondono a formare una massa stabile, di forma cubica definita, senza più incrinature che ne ricordino il passato. Detta e ridetta in cento colori, ora caldi ora freddi, tutti di raffinata eleganza, la nuova solida forma sembra tuttavia trovarsi a disagio nel vasto “mare” del foglio di carta che la accoglie, come se la conquistata, preziosa autosufficienza avesse portato in dono anche una smisurata solitudine.
Ecco dunque l’incontro tra la forma originaria e altre due forme simili ad essa (emanazioni e repliche della forma originaria o forme preesistenti, momentaneamente dimenticate, dalle quali ha avuto origine la forma originaria stessa?). Ora è l’incontro di entità definite (non di frammenti) a riempire lo spazio “scenico”, entità che possono avvicinarsi, toccarsi, sovrapporsi, ma non perdere la loro identità e differenziazione reciproca.
In questa rigidità di rapporti, l’incontro tra il cubo originario e gli altri solidi mi è parso altamente interessante e al tempo stesso non ancora pienamente armonico, e come privato di qualche potenzialità espressiva. Come se queste figure ci parlassero della paura di perdere i confini più che della capacità di arricchirsi nelle mescole e nelle contaminazioni. In altri termini, come se dovessero esorcizzare il rischio di una “fusione” senza ritorno nell’Altro, mantenendo una irriducibile individualità di sé.
Soluzione soggetta a imprevedibili evoluzioni…

Mostra numero due